Una piccola voce “Per mantenere vivo il ricordo”
In occasione del progetto “Insegnare gli anni Settanta” le classi 5ª H e 5ª G si sono recate alla stazione di Bologna per compiere un excursus sull’attentato del 2 Agosto 1980. I ragazzi hanno avuto l'opportunità di conoscere il testimone Agide Melloni, classe 1949, autista dell’autobus numero 37, che ha trasportato i corpi delle vittime dalla stazione all’obitorio.
“Ho cominciato a rendermi conto di quello che stava succedendo quando sono arrivato sul ponte di Galliera che passa sopra la stazione. Da lì ho intravisto l’ala colpita dalla bomba: era una montagna enorme di macerie, già al solo sguardo è un pugno nello stomaco. Poi osservai la gente: c’era chi scappava, chi era rimasto ferito e chi sconvolto, si allontanava e poi tornava disorientato; altri, ancora, avevano atteggiamenti incomprensibili, si muovevano senza senso, in ogni caso, furono proprio quelle persone che si trasformarono nei primissimi soccorritori”.
“I soccorsi arrivarono in pochi minuti, pronti ad aiutare e confortare le vittime. Al loro fianco, tante altre persone semplici cominciarono a dare il loro contributo, attraverso gesti che all’apparenza potrebbero sembrare poco importanti, ma in quel momento furono fondamentali: c’era chi toglieva i rottami di bici per velocizzare il passaggio dei soccorritori, chi si buttava al centro di un incrocio mettendosi un fazzoletto al braccio per dirigere il traffico, chi usciva dai negozi, prendendo sottobraccio un ferito e chi cercava di consolare i familiari che urlavano disperati i nomi dei loro cari. Le persone fuggivano in preda al panico: c’era la grande paura che potesse scoppiare un’altra bomba”.
“La cosa particolare di quegli autobus è che furono luoghi di riparo ed assistenza.
Si trovavano davanti alla stazione, alcuni danneggiati dalla violenza dello scoppio, ma pronti a caricare decine di persone ferite per facilitare il lavoro dei soccorsi e aspettare l’arrivo dell’ambulanza. Grazie a questo intervento fuori dal comune, ci furono delle vite salvate. L’ambulanza può portare una o due persone, ma quando si arriva con un autobus con decine di feriti si dà la possibilità ai medici di intervenire con rapidità.”
“Io ero lì, mi chiesi se potessi fare qualcosa, presumendo di scavare e soccorrere proprio come facevano gli altri, ma mi trovai davanti quegli autobus rientrati dagli ospedali che erano rimasti fuori dalla stazione, solo uno era tornato nel piazzale: era la linea 37.
Alle mie spalle venivano allineati e adagiati sempre più corpi, io e altri soccorritori, semplicemente con uno sguardo, capimmo che dovevamo fare una sola cosa: salvare le vite.
In quel momento, presi il posto dell’autista di quella linea che, stremato dall'accaduto, andò via.
Grazie al 37, abbiamo cominciato a trasportare quei corpi, li abbiamo alzati con cura e affetto mettendoli uno affianco all’altro, ma mai uno sopra all’altro. Se li avessimo sovrapposti, sicuramente avremmo fatto qualche viaggio in meno, ma avremmo usato disprezzo e cattiveria, proprio come coloro che avevano innescato la bomba.
Guidare l’autobus era il mio lavoro, era quello che sapevo fare meglio, ho cominciato a fare quel tragitto ripetutamente, e ogni volta che tornavo agli obitori la situazione era sempre più tragica; il momento dei riconoscimenti era uno strazio che mi ha sconvolto, anche se non conoscevo quelle persone.
Un avvenimento del genere non passerà mai, mi rimarrà per sempre dentro”.
Cosa l’ha spinta a continuare a guidare l’autobus?
“L’ho sentito come un dovere umano, ho una mia formazione culturale che mi avrebbe comunque spinto a comportarmi così, vedere la sofferenza e la cattiveria messa in opera da chi aveva organizzato quell'attentato mi aveva spinto a non tirarmi indietro, era più forte di me. Ho agito con grande commozione e convinzione, mi sono sentito parte di una città che, in un momento così concitato, ha reagito in tanti modi diversi”.
Quel giorno ha ancora effetti su di lei oggi?
“Quando racconto questa vicenda non riesco a separarmi dal ricordo. A distanza di 45 anni, rivivo con la stessa intensità quella giornata, come se il tempo non fosse trascorso.
Ogni volta che passo davanti alla stazione, per un attimo, i miei occhi vedono la tragica scena del 2 agosto, poi ritorno alla realtà”.
Cosa l’ha spinta a raccontare la sua testimonianza?
“Sono rimasto in silenzio per più di vent’anni, era tutto surreale e non riuscivo a metabolizzare l’accaduto.
Pensavo che, chi non era presente non potesse comprendere la vicenda e credere alle mie parole, perciò ho preferito non parlare.
Poi le persone cambiano, gli anni passano, e c’è bisogno di mantenere vivo il ricordo.
Grazie a diverse persone, per prima la prof.ssa Venturoli, sono riuscito a capire come la mia testimonianza potesse essere importante per rendere consapevoli le nuove generazioni e far sì che il 2 agosto non fosse ricordato come un giorno qualunque.”
Si sente di dare qualche consiglio alle nuove generazioni?
“Io non vi do consigli, vi chiedo di essere d’aiuto con noi, con le nuove tecnologie, con le nuove opportunità per far sì che non venga dimenticato quel giorno.
Ogni cosa anche piccola, come quest’intervista, è fondamentale per mantenere vivo il ricordo.”
Redazione Sigonio:
Alexandrina Maranda 5 ªH
Alice Ferrari 5 ªH
Sara Annuzza 5 ªH